Bastardi
Salve! Mi chiamo Carlo Leopoldo, Leo per gli amici.
Sono uno splendido adolescente e sarò ancora più bello
da adulto. Non per niente sono figlio del magnifico Roussolo I,
granduca De' Monti, diventato il mito della vallata. Io non l'ho mai
conosciuto ma le sue gesta sono rimaste famose fra la gente del
popolo e ancora oggi, a distanza di anni, i più anziani si ricordano
di lui. Personalmente non erediterò alcun titolo nobiliare perché
sono frutto di una relazione illegittima, in pratica sono un
bastardo, nato da una breve avventura fra Roussolo e mia madre Tissy,
la zingara.
Roussolo, giovane e bello, con la chioma fulva e il
mantello dorato, viveva in un castello sulla cima della collina più
alta da dove osservava, con aria sorniona, i contadini al lavoro
nelle valli sottostanti.
Ma lui non si accontentava di guardare e, la notte,
scendeva nei campi e distruggeva i raccolti. Aspettava che i
contadini rientrassero nelle loro umili case e, mentre sedevano
intorno al tavolo per consumare una frugale cena, buttava all'aria le
coltivazioni di mais e poi scappava nella notte buia come un fantasma
con il mantello al vento che luccicava sotto il bagliore lunare.
Nessuno osava ribellarsi perché era il figlio dei
signori del castello e perché, quelli che incrociavano i suoi occhi
ambrati, si sentivano intimoriti da quello sguardo fiero e arrogante.
Tissy abitava in una baracca. Anche lei bastarda. Mia
nonna, soprannominata l'Urlona, era, a sua volta, figlia illegittima
di Giada, la mia bisnonna, la più vecchia puttana del paese.
Tissy era una bella moretta, un po' piccolina invero,
libera, indipendente e selvaggia con un cuore grande così. Sua madre
era morta da tempo e sua nonna, che aveva deciso di cambiare vita,
era andata a servizio presso i padroni della tenuta più vasta della
valle: ricchi borghesi arricchitisi con il commercio del bestiame
che, non conoscendo il suo passato, l'avevano accolta come una di
famiglia.
La mia povera mamma viveva tutta sola in una casa
diroccata e, quando non aveva niente da mangiare, andava a bussare
dai vicini che non le rifiutavano mai un boccone o una parola di
conforto, le avevano perfino offerto di andare a stare con loro, ma
Tissy non sopportava alcuna restrizione e preferiva vivere alla
giornata. Una notte, mentre dormiva sopra il suo lurido materasso
pieno di pulci e cimici, sentì un rumore sospetto provenire
dall'esterno. Pensando che fosse un grosso ratto in cerca di cibo, si
alzò silenziosa e, armata fino ai denti, uscì da una finestra rotta
per andare a controllare. Si ritrovò davanti Roussolo in carne e
ossa. Non lo aveva mai visto prima, ciononostante non ebbe alcun
dubbio sull'identità del suo visitatore notturno. Fu un colpo di
fulmine. Il cuore cominciò a galoppare impazzito, la lingua si seccò
e le gambe si fecero molli e tremanti.
Roussolo le chiese di farlo entrare perché un contadino
inferocito gli stava dando la caccia. Restarono insieme tre
meravigliosi, indimenticabili giorni.
Correvano come ragazzini sui prati dove i primi fiori
facevano capolino fra l'erba tenera., si fermavano a bere l'acqua
fresca dai rigagnoli che si erno formati con il disgelo un po'
dovunque, passavano ore e ore sdraiati sotto il sole a contemplare la
vallata dove i contadini operosi lavoravano con alacrità. Facevano
progetti per il futuro. Il mare, in lontananza, luccicava sotto i
caldi raggi. Tissy avrebbe voluto andare sulla sua riva ma
occorrevano troppi giorni di cammino e Roussolo doveva rientrare al
castello. Le promise che sarebbe tornato a prenderla, una volta
sistemati certi affari, ma non lo vide mai più.
Mia madre si accorse ben presto di essere incinta e, pur
sapendo di avere a stento cibo per se stessa, non volle chiedere
aiuto a nessuno, perciò partorì da sola i suoi tre gemelli e,
ancora convinta che quel manigoldo di mio padre sarebbe tornato, ci
diede dei nomi altisonanti pensando che, dopotutto eravamo i nipoti
del granduca. Così io fui chiamato Carlo Leopoldo, mio fratello
Pietro Cirillo Ubaldo e mia sorella Clotilde Leopoldina, in onore
della nonna paterna che non avrebbe mai conosciuto.
Per paura che ci rapissero, si trasferì in un'altra
baracca abbandonata e stava tutto il giorno insieme a noi. Solo
quando il cielo cominciava a oscurarsi andava dai vicini a
elemosinare due bocconcini. Non voglio essere troppo duro nei suoi
confronti ma, in quei primi mesi di vita, io e i miei fratelli
conoscemmo tutti gli stenti possibili. Quando ormai eravamo minati
nella salute, se non nello spirito, si decise a portarci da quella
buona famiglia che già le aveva dato tanto aiuto. Non dovevamo
essere un gran bello spettacolo con gli occhi cisposi, il naso
moccioso e un evidente stato di denutrizione, ma loro ci accolsero
con gioia e, da allora in poi, i nostri guai ebbero fine.
Ora sono qua, bello e fiero, nella mia nuova casa con la
legna che scoppietta nel camino e il piatto sempre pieno di
leccornie. Purtroppo sono rimasto solo perché mia sorella Poldina è
stata azzannata alla gola da un cane rabbioso e Picciù è stato
investito da una carrozza trainata da molti cavalli imbizzarriti. La
nostra mamma adottiva ha consultato i migliori specialisti del
granducato nel tentativo di salvarlo ma tutte le cure si sono
rivelate inutili e Picciù è spirato fra le sue braccia dopo dodici
lunghi giorni di agonia.
Da un po' di tempo mia madre Tissy fa coppia fissa con
Peter, un vagabondo come lei, e fa finta di non conoscermi quando mi
incontra, in quanto a Roussolo nessuno l'ha più visto. Qualcuno dice
che è rinchiuso nel castello, qualcuno l'ha visto partire per
raggiungere il mare, altri dicono che è stato ucciso a bastonate da
un contadino e sepolto in un campo. Probabilmente non lo conoscerò
mai ma a me non importa perché sto molto bene con la mia nuova
famiglia e non ho ereditato né la sete di libertà di mia madre, né
l'arroganza di mio padre: sono allegro, sereno e tranquillo, anche se
un po' preoccupato perché la mia mamma adottiva sta piangendo
ininterrottamente da diversi giorni.
Tutta colpa di Mao. Fin dall'inizio ho tentato di farle
capire che era meglio tenerlo alla larga quello lì, ma lei niente.
Quando ci si mette è più dura del vecchio mulo del signor Duretti
che, se si impunta, non fa più un passo avanti né uno indietro..
L'anno scorso, nel mese di marzo, si presentò alla
nostra porta un vagabondo. Io, la buonanima di mio fratello Picciù e
la signora De Ciccettis, una vecchia dama di compagnia, stavamo
riposando in giardino quando vedemmo scendere dalla collina uno
strano individuo, così strano da non sembrare neanche una creatura
in carne e ossa quanto piuttosto lo scherzo bizzarro di un pittore
ubriaco. Era molto alto, di corporatura robusta, con una folta
capigliatura color cenere, come il suo mantello, e una veste bianca
un po' consunta. Gli occhi, verdi come smeraldi, spiccavano nella
carnagione chiara del volto e, sul naso, aggraziato nonostante le
notevoli dimensioni, tre nei facevano sì che tutta l'attenzione di
chi lo guardava fosse concentrata in quel punto. Doveva essere
piuttosto giovane anche se procedeva un po' stentato, come se fosse
molto stanco o molto spaventato.
Ogni tanto si voltava indietro, forse temendo di essere
inseguito. Giunto al limite esterno della proprietà, si accasciò
nell'erba privo di forze. Noi tre ci scambiammo un'occhiata
preoccupata: quel tipo avrebbe sconvolto le nostre tranquille
esistenze. Intanto arriivò la mamma, puntuale come la grandine di
agosto, giusto in tempo per vedere quel losco figuro sdraiato sul
prato, immobile come un morto. Si precipitò verso di lui. Intanto il
vagabondo aveva cominciato a lamentarsi ad alta voce...Non so cosa
capì però la vedemmo partire alla volta di casa per tornare, poco
dopo, con un piatto pieno di ogni ben di Dio. Alzando la testa quanto
basta, lui iniziò a mangiare con una voracità incredibile e, in
meno di un minuto, il piatto brillava come se fosse stato appena
lavato.
“Eh ragazzi, la vedo male” dissi agli altri due “Va
a finire che adotta anche lui e, visto quanto mangia, siamo
rovinati.”
Picciù, molto più audace di me, balzò giù dalla sua
poltrona e si avvicinò al nuovo venuto con aria minacciosa ma fu
ricacciato indietro da quella sventata di nostra madre che lo
rimproverò aspra, accusandolo di essere poco ospitale. Intanto il
“poveraccio” si era ripreso e aveva cominciato a ringraziare la
mamma con un tono, secondo me, falsamente umile. Le fece un mare di
inchini e moine con un vocione alquanto cavernoso. Com'è ovvio, non
ripartì più. La notte dormiva sotto il portico e di giorno stava
con noi a prendere il sole in giardino. Si presentò come Otto Von
Maoser, barone di Nonhocapitoche, cacciato da palazzo all'arrivo del
giovane erede del principe che piangeva ogni volta che si trovava in
sua presenza. Secondo il principe il bambino era spaventato dalla sua
voce, secondo noi era spaventato dalla sua voracità. Un mese dopo ci
fu l'incidente a Picciù e mamma, disperata, offrì a Von Maoser di
prendere il suo posto e lo mise a dormire accanto a me, nel letto
lasciato vuoto dal mio povero fratello.
La sera, dopo cena, quando stavamo a poltrire intorno al
camino, Mao, così avevamo soprannominato il barone, gorgheggiava un
mucchio di storie, per la verità divertenti, e faceva il giullare.
Confesso di essere stato geloso.
La signora De Ciccettis, con la sua saggezza antica,
tentava di rincuorarmi dicendo che ero sempre io il “cocco di
mamma” ma, quando la vedevo ridere delle battute di Mao, mi sentivo
trafiggere da una fitta dolorosa. Era un gran ruffiano, simpatico, ma
pur sempre un ruffiano. Quando sentiva la carrozza di mamma, era il
primo ad arrivare al cancello e non si stancava mai di salutarla e
riverirla. Intanto anche la sua salute era migliorata e, grazie alla
vita oziosa, il suo aspetto era superbo. Aveva perso quell'andatura
incerta con la quale era arrivato e, quando usciva per la sua
passeggiata giornaliera, aveva un incedere aristocratico, tanto che
tutti noi cominciammo a credere che fosse davvero un barone caduto in
disgrazia. Gli abitanti della valle avevano fatto amicizia con lui e
si fermavano volentieri a scambiarci convenevoli. Mao stava ad
ascoltare tutti con aria affabile, poi tornava a casa e si ingozzava
come un tacchino all'ingrasso.
Devo ammettere che, lontano dai pasti, anch'io e la
signora De Ciccettis cominciammo a trovarlo gradevole e a trascorrere
molto tempo in sua compagnia. Il barone sorrideva sempre ed era in
apparenza sereno ma, certe notti, si svegliava in preda agli incubi.
Lanciava degli strani ululati e scalciava nel sonno, come se stesse
tentando di sfuggire a qualcosa o a qualcuno. Tentai di farmi
raccontare quali tristi esperienze lo avessero segnato a tal punto ma
lui minimizzava e si raggomitolava sul fianco, riprendendo a ronfare
quasi subito. Era un vero signore e non amava parlare di sé. Poi
avvenne la tragedia.
Mao uscì per la solita passeggiata mattutina ma non
fece più ritorno.
Quando la mamma tornò a casa e non lo vide presentarsi
per il pranzo corse a cercarlo, chiese ai vicini se lo avevano
incontrato ma nessuno seppe fornirle notizie. In preda al panico girò
per tutta la valle ma giunse la sera e di Mao nessuna traccia. Il
giorno dopo andò in tipografia e fece stampare dei manifesti,
offrendo una ricompensa a chi l'avesse aiutata a ritrovare Von
Maoser. Andò anche nei villaggi vicini, mostrando un ritratto che
gli aveva fatto lei stessa, ma niente, nessuno lo aveva visto.
Cominciò a pensare che si fosse stancato della nostra famiglia e che
fosse partito in cerca di nuove avventure. Ogni tanto si affacciava
alla finestra, sperando di vederlo tornare.
“Ma perché se n'è andato” sospirava “lo amavamo
tutti”.
E non riusciva a darsi pace. Poi, un giorno, venne un
vicino a dire che il cadavere di Mao era stato rinvenuto in un
cunicolo e che aveva già provveduto a chiamare i pompieri perché lo
venissero a recuperare.
Anche Mao, come Picciù, era stato investito da una
carrozza trainata da molti cavalli imbizzarriti, forse la medesima,
ed era stato lasciato a morire nel fosso in cui era volato dopo
l'urto. Forse stava correndo dietro a un gabbiano e si era
distratto...
La sua partenza è stata in grande stile come l'arrivo.
Lo hanno portato via su un grosso carro rosso fra la disperazione
della mamma e le lacrime dei vicini che lo avevano conosciuto e
amato. Dato che si trattava di un vagabondo, il caso è stato subito
archiviato e quella bestia che ha ucciso lui e mio fratello resterà
impunita. Per questo motivo la mamma sta piangendo e, anche se io e
la signora De Ciccettis facciamo di tutto per distrarla, lei continua
a singhiozzare e a stringere fra le mani il ritratto di Otto Von
Maoser, barone di Nonhocapitoche, entrato come una meteora nelle
nostre vite e uscito con il primo alito di vento estivo.
E così, mentre lei piange, io sono costretto a restare
in casa, un po' per consolarla, un po' perché teme che anch'io possa
fare la fine degli altri due.
Addio topolini e lucertole, addio passerotti nei nidi!
Sto tutto il giorno al computer, ma per un gatto non è di certo il
massimo della vita...
...Sono passati undici anni. Carlo Leopoldo è ancora
bellissimo ma un po' di artrosi alle giunture gli impedisce di usare
il computer perciò terminerò io la storia. Qualche anno fa ci hanno
lasciato la signora De Ciccettis, Tissy, Peter e la bisnonna Giada,
però sotto il portico e in casa hanno trovato accoglienza
innumerevoli nuovi vagabondi. In particolare, nel luglio del 2009, si
presentò alla nostra porta un altro nobile decaduto, l'anziano conte
James di Tonnilinis, che noi ribattezzammo in modo confidenziale
Tonno. I suoi parenti erano partiti per le vacanze estive e, dato che
lui era molto malato e senza un soldo, l'avevano sbattuto in mezzo
alla strada. Pur con un velo di tristezza, aveva accettato il nostro
cibo e le carezze che gli elargivamo e, ben presto, si era procurato
un giaciglio nella nostra umile dimora. I sanitari che lo visitarono
decretarono che non sarebbe vissuto a lungo ma le cure gli ridiedero
energia e lui ritrovò il buonumore. Purtroppo la nostra reciproca
felicità è durata poco però, averlo conosciuto, è stata una
fortuna.
Tonno se n'è andato in una gelida notte di gennaio.
L'abbiamo sepolto sotto il pesco ma lui continua a guardarci dalla
foto incorniciata sulla mensola del camino...Ci ha dato molta gioia,
così come ci danno molta gioia Miss Kiwit, una trovatella che ha
preso il suo posto, e gli altri bastardi, baffuti e pelosi, che
popolano il giardino...con qualche incursione in casa per rendere
omaggio al granduca Carlo Leopoldo, detto Leo: Miss De Ciccettis II,
Miss Dolcina Sweet, Miss Polpetta, Miss Panzi, il signor Bruto, Miss
Charlie Charline, il Moretto, la mamma Pippi Gambelunghe, la nonna
Stortina, lo zio Schizo, la cugina Pallina e la povera Scianca.
Che sonno ragazzi! Ho bisogno di un pisolino...
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