martedì 28 maggio 2013

Carlo Leopoldo I (Leo) presenta: "Bastardi"


Bastardi

Salve! Mi chiamo Carlo Leopoldo, Leo per gli amici.
Sono uno splendido adolescente e sarò ancora più bello da adulto. Non per niente sono figlio del magnifico Roussolo I, granduca De' Monti, diventato il mito della vallata. Io non l'ho mai conosciuto ma le sue gesta sono rimaste famose fra la gente del popolo e ancora oggi, a distanza di anni, i più anziani si ricordano di lui. Personalmente non erediterò alcun titolo nobiliare perché sono frutto di una relazione illegittima, in pratica sono un bastardo, nato da una breve avventura fra Roussolo e mia madre Tissy, la zingara.
Roussolo, giovane e bello, con la chioma fulva e il mantello dorato, viveva in un castello sulla cima della collina più alta da dove osservava, con aria sorniona, i contadini al lavoro nelle valli sottostanti.
Ma lui non si accontentava di guardare e, la notte, scendeva nei campi e distruggeva i raccolti. Aspettava che i contadini rientrassero nelle loro umili case e, mentre sedevano intorno al tavolo per consumare una frugale cena, buttava all'aria le coltivazioni di mais e poi scappava nella notte buia come un fantasma con il mantello al vento che luccicava sotto il bagliore lunare.
Nessuno osava ribellarsi perché era il figlio dei signori del castello e perché, quelli che incrociavano i suoi occhi ambrati, si sentivano intimoriti da quello sguardo fiero e arrogante.
Tissy abitava in una baracca. Anche lei bastarda. Mia nonna, soprannominata l'Urlona, era, a sua volta, figlia illegittima di Giada, la mia bisnonna, la più vecchia puttana del paese.
Tissy era una bella moretta, un po' piccolina invero, libera, indipendente e selvaggia con un cuore grande così. Sua madre era morta da tempo e sua nonna, che aveva deciso di cambiare vita, era andata a servizio presso i padroni della tenuta più vasta della valle: ricchi borghesi arricchitisi con il commercio del bestiame che, non conoscendo il suo passato, l'avevano accolta come una di famiglia.
La mia povera mamma viveva tutta sola in una casa diroccata e, quando non aveva niente da mangiare, andava a bussare dai vicini che non le rifiutavano mai un boccone o una parola di conforto, le avevano perfino offerto di andare a stare con loro, ma Tissy non sopportava alcuna restrizione e preferiva vivere alla giornata. Una notte, mentre dormiva sopra il suo lurido materasso pieno di pulci e cimici, sentì un rumore sospetto provenire dall'esterno. Pensando che fosse un grosso ratto in cerca di cibo, si alzò silenziosa e, armata fino ai denti, uscì da una finestra rotta per andare a controllare. Si ritrovò davanti Roussolo in carne e ossa. Non lo aveva mai visto prima, ciononostante non ebbe alcun dubbio sull'identità del suo visitatore notturno. Fu un colpo di fulmine. Il cuore cominciò a galoppare impazzito, la lingua si seccò e le gambe si fecero molli e tremanti.
Roussolo le chiese di farlo entrare perché un contadino inferocito gli stava dando la caccia. Restarono insieme tre meravigliosi, indimenticabili giorni.
Correvano come ragazzini sui prati dove i primi fiori facevano capolino fra l'erba tenera., si fermavano a bere l'acqua fresca dai rigagnoli che si erno formati con il disgelo un po' dovunque, passavano ore e ore sdraiati sotto il sole a contemplare la vallata dove i contadini operosi lavoravano con alacrità. Facevano progetti per il futuro. Il mare, in lontananza, luccicava sotto i caldi raggi. Tissy avrebbe voluto andare sulla sua riva ma occorrevano troppi giorni di cammino e Roussolo doveva rientrare al castello. Le promise che sarebbe tornato a prenderla, una volta sistemati certi affari, ma non lo vide mai più.
Mia madre si accorse ben presto di essere incinta e, pur sapendo di avere a stento cibo per se stessa, non volle chiedere aiuto a nessuno, perciò partorì da sola i suoi tre gemelli e, ancora convinta che quel manigoldo di mio padre sarebbe tornato, ci diede dei nomi altisonanti pensando che, dopotutto eravamo i nipoti del granduca. Così io fui chiamato Carlo Leopoldo, mio fratello Pietro Cirillo Ubaldo e mia sorella Clotilde Leopoldina, in onore della nonna paterna che non avrebbe mai conosciuto.
Per paura che ci rapissero, si trasferì in un'altra baracca abbandonata e stava tutto il giorno insieme a noi. Solo quando il cielo cominciava a oscurarsi andava dai vicini a elemosinare due bocconcini. Non voglio essere troppo duro nei suoi confronti ma, in quei primi mesi di vita, io e i miei fratelli conoscemmo tutti gli stenti possibili. Quando ormai eravamo minati nella salute, se non nello spirito, si decise a portarci da quella buona famiglia che già le aveva dato tanto aiuto. Non dovevamo essere un gran bello spettacolo con gli occhi cisposi, il naso moccioso e un evidente stato di denutrizione, ma loro ci accolsero con gioia e, da allora in poi, i nostri guai ebbero fine.
Ora sono qua, bello e fiero, nella mia nuova casa con la legna che scoppietta nel camino e il piatto sempre pieno di leccornie. Purtroppo sono rimasto solo perché mia sorella Poldina è stata azzannata alla gola da un cane rabbioso e Picciù è stato investito da una carrozza trainata da molti cavalli imbizzarriti. La nostra mamma adottiva ha consultato i migliori specialisti del granducato nel tentativo di salvarlo ma tutte le cure si sono rivelate inutili e Picciù è spirato fra le sue braccia dopo dodici lunghi giorni di agonia.
Da un po' di tempo mia madre Tissy fa coppia fissa con Peter, un vagabondo come lei, e fa finta di non conoscermi quando mi incontra, in quanto a Roussolo nessuno l'ha più visto. Qualcuno dice che è rinchiuso nel castello, qualcuno l'ha visto partire per raggiungere il mare, altri dicono che è stato ucciso a bastonate da un contadino e sepolto in un campo. Probabilmente non lo conoscerò mai ma a me non importa perché sto molto bene con la mia nuova famiglia e non ho ereditato né la sete di libertà di mia madre, né l'arroganza di mio padre: sono allegro, sereno e tranquillo, anche se un po' preoccupato perché la mia mamma adottiva sta piangendo ininterrottamente da diversi giorni.
Tutta colpa di Mao. Fin dall'inizio ho tentato di farle capire che era meglio tenerlo alla larga quello lì, ma lei niente. Quando ci si mette è più dura del vecchio mulo del signor Duretti che, se si impunta, non fa più un passo avanti né uno indietro..
L'anno scorso, nel mese di marzo, si presentò alla nostra porta un vagabondo. Io, la buonanima di mio fratello Picciù e la signora De Ciccettis, una vecchia dama di compagnia, stavamo riposando in giardino quando vedemmo scendere dalla collina uno strano individuo, così strano da non sembrare neanche una creatura in carne e ossa quanto piuttosto lo scherzo bizzarro di un pittore ubriaco. Era molto alto, di corporatura robusta, con una folta capigliatura color cenere, come il suo mantello, e una veste bianca un po' consunta. Gli occhi, verdi come smeraldi, spiccavano nella carnagione chiara del volto e, sul naso, aggraziato nonostante le notevoli dimensioni, tre nei facevano sì che tutta l'attenzione di chi lo guardava fosse concentrata in quel punto. Doveva essere piuttosto giovane anche se procedeva un po' stentato, come se fosse molto stanco o molto spaventato.
Ogni tanto si voltava indietro, forse temendo di essere inseguito. Giunto al limite esterno della proprietà, si accasciò nell'erba privo di forze. Noi tre ci scambiammo un'occhiata preoccupata: quel tipo avrebbe sconvolto le nostre tranquille esistenze. Intanto arriivò la mamma, puntuale come la grandine di agosto, giusto in tempo per vedere quel losco figuro sdraiato sul prato, immobile come un morto. Si precipitò verso di lui. Intanto il vagabondo aveva cominciato a lamentarsi ad alta voce...Non so cosa capì però la vedemmo partire alla volta di casa per tornare, poco dopo, con un piatto pieno di ogni ben di Dio. Alzando la testa quanto basta, lui iniziò a mangiare con una voracità incredibile e, in meno di un minuto, il piatto brillava come se fosse stato appena lavato.
Eh ragazzi, la vedo male” dissi agli altri due “Va a finire che adotta anche lui e, visto quanto mangia, siamo rovinati.”
Picciù, molto più audace di me, balzò giù dalla sua poltrona e si avvicinò al nuovo venuto con aria minacciosa ma fu ricacciato indietro da quella sventata di nostra madre che lo rimproverò aspra, accusandolo di essere poco ospitale. Intanto il “poveraccio” si era ripreso e aveva cominciato a ringraziare la mamma con un tono, secondo me, falsamente umile. Le fece un mare di inchini e moine con un vocione alquanto cavernoso. Com'è ovvio, non ripartì più. La notte dormiva sotto il portico e di giorno stava con noi a prendere il sole in giardino. Si presentò come Otto Von Maoser, barone di Nonhocapitoche, cacciato da palazzo all'arrivo del giovane erede del principe che piangeva ogni volta che si trovava in sua presenza. Secondo il principe il bambino era spaventato dalla sua voce, secondo noi era spaventato dalla sua voracità. Un mese dopo ci fu l'incidente a Picciù e mamma, disperata, offrì a Von Maoser di prendere il suo posto e lo mise a dormire accanto a me, nel letto lasciato vuoto dal mio povero fratello.
La sera, dopo cena, quando stavamo a poltrire intorno al camino, Mao, così avevamo soprannominato il barone, gorgheggiava un mucchio di storie, per la verità divertenti, e faceva il giullare. Confesso di essere stato geloso.
La signora De Ciccettis, con la sua saggezza antica, tentava di rincuorarmi dicendo che ero sempre io il “cocco di mamma” ma, quando la vedevo ridere delle battute di Mao, mi sentivo trafiggere da una fitta dolorosa. Era un gran ruffiano, simpatico, ma pur sempre un ruffiano. Quando sentiva la carrozza di mamma, era il primo ad arrivare al cancello e non si stancava mai di salutarla e riverirla. Intanto anche la sua salute era migliorata e, grazie alla vita oziosa, il suo aspetto era superbo. Aveva perso quell'andatura incerta con la quale era arrivato e, quando usciva per la sua passeggiata giornaliera, aveva un incedere aristocratico, tanto che tutti noi cominciammo a credere che fosse davvero un barone caduto in disgrazia. Gli abitanti della valle avevano fatto amicizia con lui e si fermavano volentieri a scambiarci convenevoli. Mao stava ad ascoltare tutti con aria affabile, poi tornava a casa e si ingozzava come un tacchino all'ingrasso.
Devo ammettere che, lontano dai pasti, anch'io e la signora De Ciccettis cominciammo a trovarlo gradevole e a trascorrere molto tempo in sua compagnia. Il barone sorrideva sempre ed era in apparenza sereno ma, certe notti, si svegliava in preda agli incubi. Lanciava degli strani ululati e scalciava nel sonno, come se stesse tentando di sfuggire a qualcosa o a qualcuno. Tentai di farmi raccontare quali tristi esperienze lo avessero segnato a tal punto ma lui minimizzava e si raggomitolava sul fianco, riprendendo a ronfare quasi subito. Era un vero signore e non amava parlare di sé. Poi avvenne la tragedia.
Mao uscì per la solita passeggiata mattutina ma non fece più ritorno.
Quando la mamma tornò a casa e non lo vide presentarsi per il pranzo corse a cercarlo, chiese ai vicini se lo avevano incontrato ma nessuno seppe fornirle notizie. In preda al panico girò per tutta la valle ma giunse la sera e di Mao nessuna traccia. Il giorno dopo andò in tipografia e fece stampare dei manifesti, offrendo una ricompensa a chi l'avesse aiutata a ritrovare Von Maoser. Andò anche nei villaggi vicini, mostrando un ritratto che gli aveva fatto lei stessa, ma niente, nessuno lo aveva visto. Cominciò a pensare che si fosse stancato della nostra famiglia e che fosse partito in cerca di nuove avventure. Ogni tanto si affacciava alla finestra, sperando di vederlo tornare.
Ma perché se n'è andato” sospirava “lo amavamo tutti”.
E non riusciva a darsi pace. Poi, un giorno, venne un vicino a dire che il cadavere di Mao era stato rinvenuto in un cunicolo e che aveva già provveduto a chiamare i pompieri perché lo venissero a recuperare.
Anche Mao, come Picciù, era stato investito da una carrozza trainata da molti cavalli imbizzarriti, forse la medesima, ed era stato lasciato a morire nel fosso in cui era volato dopo l'urto. Forse stava correndo dietro a un gabbiano e si era distratto...
La sua partenza è stata in grande stile come l'arrivo. Lo hanno portato via su un grosso carro rosso fra la disperazione della mamma e le lacrime dei vicini che lo avevano conosciuto e amato. Dato che si trattava di un vagabondo, il caso è stato subito archiviato e quella bestia che ha ucciso lui e mio fratello resterà impunita. Per questo motivo la mamma sta piangendo e, anche se io e la signora De Ciccettis facciamo di tutto per distrarla, lei continua a singhiozzare e a stringere fra le mani il ritratto di Otto Von Maoser, barone di Nonhocapitoche, entrato come una meteora nelle nostre vite e uscito con il primo alito di vento estivo.
E così, mentre lei piange, io sono costretto a restare in casa, un po' per consolarla, un po' perché teme che anch'io possa fare la fine degli altri due.
Addio topolini e lucertole, addio passerotti nei nidi! Sto tutto il giorno al computer, ma per un gatto non è di certo il massimo della vita...

...Sono passati undici anni. Carlo Leopoldo è ancora bellissimo ma un po' di artrosi alle giunture gli impedisce di usare il computer perciò terminerò io la storia. Qualche anno fa ci hanno lasciato la signora De Ciccettis, Tissy, Peter e la bisnonna Giada, però sotto il portico e in casa hanno trovato accoglienza innumerevoli nuovi vagabondi. In particolare, nel luglio del 2009, si presentò alla nostra porta un altro nobile decaduto, l'anziano conte James di Tonnilinis, che noi ribattezzammo in modo confidenziale Tonno. I suoi parenti erano partiti per le vacanze estive e, dato che lui era molto malato e senza un soldo, l'avevano sbattuto in mezzo alla strada. Pur con un velo di tristezza, aveva accettato il nostro cibo e le carezze che gli elargivamo e, ben presto, si era procurato un giaciglio nella nostra umile dimora. I sanitari che lo visitarono decretarono che non sarebbe vissuto a lungo ma le cure gli ridiedero energia e lui ritrovò il buonumore. Purtroppo la nostra reciproca felicità è durata poco però, averlo conosciuto, è stata una fortuna.

Tonno se n'è andato in una gelida notte di gennaio. L'abbiamo sepolto sotto il pesco ma lui continua a guardarci dalla foto incorniciata sulla mensola del camino...Ci ha dato molta gioia, così come ci danno molta gioia Miss Kiwit, una trovatella che ha preso il suo posto, e gli altri bastardi, baffuti e pelosi, che popolano il giardino...con qualche incursione in casa per rendere omaggio al granduca Carlo Leopoldo, detto Leo: Miss De Ciccettis II, Miss Dolcina Sweet, Miss Polpetta, Miss Panzi, il signor Bruto, Miss Charlie Charline, il Moretto, la mamma Pippi Gambelunghe, la nonna Stortina, lo zio Schizo, la cugina Pallina e la povera Scianca.



Che sonno ragazzi! Ho bisogno di un pisolino...

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